Gli evidenti segnali della recessione della Germania potrebbero avere degli effetti devastanti su tutte le economie partner e, in particolare, su quella italiana. L’economia USA si dimostra più forte del previsto e la Cina segna un calo del PIL.
Ironia della storia. Lo scorso ottobre 2023 la Germania diventava la terza più grande economia del mondo, sorpassando il Giappone. Ma nelle stesse settimane, le statistiche ne evidenziavano un pessimo stato di salute, sicuramente il peggiore fra le grandi economie del mondo e fra quelle extraeuropee. Ora, a parte il fatto che il sorpasso sul Giappone è un mero effetto valutario dovuto non alla forza della Germania ma alla debolezza dello yen rispetto all’euro e al dollaro, lo stato di salute dell’economia del più grande Paese europeo è divenuto uno dei più acuti punti di preoccupazione di questo 2024 per tutte le economie partner, soprattutto per la nostra. Cosa sta succedendo alla Germania? La recessione è un fatto.
Crisi congiunturale e strutturale
L’istituto federale di statistica in Germania ha rilevato, per l’ottobre 2023, un calo del 0,4% della produzione industriale, contro ogni aspettativa. Molti spiegano che tutto dipende dalla crisi del suo modello economico: in grande sintesi, da un lato l’energia russa a basso costo, dall’altro la sovraesposizione alla domanda del mercato cinese, ora in arretramento. Questo potrebbe anche essere uno scenario congiunturale, destinato a modificarsi se le due condizioni si modificassero. Però c’è chi spinge l’analisi più a fondo, e parla di un’industria concentrata su tecnologie “vecchie”, di mancanza di investimenti sull’innovazione, di scarsa digitalizzazione, di infrastrutture obsolete (chi ha di recente utilizzato le ferrovie tedesche sa di cosa si parla). E questo non è più congiunturale, ma strutturale. Una crisi di questo tipo farebbe vacillare uno dei pilastri portanti della costruzione europea, con effetti potenzialmente devastanti. L’ultimo outlook OCSE relativizza, inquadrando la situazione tedesca in uno scenario dove le economie avanzate sono quelle che soffrono più di quelle emergenti, la difficile congiuntura, con un’Eurozona particolarmente in difficoltà, con una crescita stimata del PIL dello 0,6% nel 2023 e dello 0,9% nel 2024.
Al contrario, l’economia degli Stati Uniti si sta dimostrando più forte del previsto, anche se a sua volta va incontro a un rallentamento nel 2024. L’OCSE prevede un PIL in aumento del 2,4% nel 2024 contro l’1,5% del 2023. La principale differenza tra l’andamento dell’economia USA e quella europea, spiega l’OCSE, va cercata nel più pesante impatto che la guerra in Russia e la crisi dell’energia hanno avuto per l’Europa. Negli USA, inoltre, i consumi hanno goduto di un forte sostegno di finanza pubblica con l’effetto di ingigantire il deficit a livelli straordinari.
Per la Cina l’OCSE vede il PIL frenare dal 5,2% del 2023 al 4,7% del 2024. Pesano la debolezza dei consumi e la crisi del settore immobiliare. Tuttavia, l’allentamento della politica monetaria e gli investimenti in infrastrutture contribuiranno a sostenere la domanda interna. L’andamento della Cina ha ripercussioni globali: un calo imprevisto del 3% della domanda interna potrebbe ridurre la crescita del PIL globale dello 0,6% e dell’1% in presenza di una significativa stretta finanziaria globale. Farà molto meglio l’India, dove la crescita del PIL si conferma sopra il 6%.
Eurozona in difficoltà
Quanto all’Europa, l’OCSE ( l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico fondata nel 1961) calcola una chiusura dei conti tedeschi in rosso (–0,1%, mentre la stima del Governo tedesco è più pessimista, a –0,4%), una crescita della Francia sotto l’1%, mentre la Spagna dovrebbe chiudere l’anno con un +2,4%. Per l’Italia il report parla di “marcata decelerazione” dovuta, secondo l’OCSE, all’erosione dei redditi reali, all’inasprimento delle condizioni finanziarie, alla fine di gran parte del sostegno fiscale eccezionale legato alla crisi energetica. Nell’Eurozona, sottolinea il report, il pieno impatto dell’inasprimento della politica monetaria deve ancora manifestarsi e l’attività economica potrebbe essere colpita più di quanto ci si aspetti. Se la tenuta dell’occupazione è una delle poche notizie positive di questa lunga fase di crisi, la rigidità del mercato del lavoro contribuirà in molti Paesi alla persistenza dell’inflazione che tuttavia, con l’attenuazione delle pressioni, potrebbe tornare al target BCE entro la fine del 2025. Il consuntivo del 2023 appare complessivamente un po’ grigio ma la situazione potrebbe migliorare, secondo le previsioni OCSE, per il biennio 2024-2025.
Nel 2024, tra le quattro maggiori economie europee, l’Italia dovrebbe crescere dello 0,7% come il Regno Unito, solo un decimale meno della Francia (+0,8%), ma più della Germania (+0,6%). Mentre nel 2025 l’Italia e le altre tre più grandi economie europee cresceranno tutte ugualmente allo stesso ritmo (+1,2%). Come risultato, fa notare l’economista Marco Fortis in un articolo del 5 dicembre 2023 sul quotidiano Il Sole 24 Ore, «La crescita cumulata italiana rispetto ai livelli prepandemici del 2019 anche a fine 2025 risulterà sempre la terza più forte del G7 (con un +4,9%) dietro a Stati Uniti (+11,5%) e Canada (+7,2%), ma davanti a Regno Unito (+4,1%), Francia (+3,5%), Giappone (+2,7%) e Germania (+2,5%)». E anche per quanto riguarda i consumi l’Italia non è messa male. Come scrive ancora Fortis, «La crescita acquisita dei consumi delle famiglie italiane per l’anno in corso (2023) dopo i primi nove mesi è oltre il doppio di quella del PIL, pari a +1,6%, trainata dai consumi di beni durevoli e servizi. A parte gli Stati Uniti (+2,3%), nessuno nel G7 ha fatto meglio dell’Italia quanto a spesa delle famiglie» (grafico 1).
La situazione tedesca preoccupa anche l’Italia
Ma torniamo alla Germania, che resta ancora il cliente più importante per molti settori del sistema economico italiano. Alle difficoltà del mercato si sono aggiunte quelle della finanza pubblica. Una devastante sentenza della Corte Costituzionale tedesca ha creato un insolito caos nella definizione del budget pubblico per il 2024, bloccando un piano del Governo di riallocare fondi non utilizzati per la pandemia verso iniziative di supporto industriale e ambientale. Questo ha messo in discussione la legittimità di stanziamenti per 29 fondi speciali previsti extra bilancio, secondo le stesse modalità, pari a circa 870 miliardi di euro. Secondo la Corte dei Conti, registrando correttamente le spese “fuori bilancio” il deficit previsto per il 2024 sarà del 2,4% e non dello 0,4% come scritto dal Governo nella sua finanziaria. Di conseguenza, sarà violata la regola costituzionale del “freno al debito” introdotta nel 2009.
La decisione della Corte ha messo il Governo in grave difficoltà, costringendolo a congelare le nuove spese e a sospendere l’approvazione del bilancio ricorrendo all’esercizio provvisorio. Il bello è che non c’è alcuna ragione oggettiva per cui la Germania si trovi in questo stallo. Con un rating creditizio di prim’ordine, Berlino può prendere in prestito denaro a condizioni migliori di quasi tutti i Paesi del pianeta. Con un deficit di bilancio del 2,6% del PIL nel 2022 e un debito totale pari al 66% del PIL, la Germania è anche ben al di sopra della media dell’Eurozona quanto a disciplina fiscale, anche aggiungendo al debito i fondi speciali.
L’unica ragione per cui la Germania non può spendere il denaro dei fondi speciali è perché si è legata a un’ortodossia fiscale quasi religiosa che considera il debito come il peggiore dei peccati, che per anni ha imposto a tutti i partner europei. Qualcuno di questi potrà sorridere: “chi di austerità ferisce di austerità perisce”, si è sentito dire. Ma è un sorriso fuori luogo, dato che i problemi tedeschi scendono a cascata su tutta l’Europa e soprattutto sull’industria italiana. Molti di quei fondi erano destinati a sostenere i comparti industriali in difficoltà. Da un lato, sul lungo periodo, questo potrebbe essere considerato una violazione delle regole comunitarie sugli aiuti di Stato, con effetti distorsivi sulla concorrenza. Ma dall’altro, sul breve e medio periodo, una crisi pesante delle aziende tedesche si tradurrebbe in difficoltà anche peggiori per i loro fornitori. I segnali ci sono già.
Tra gennaio e settembre l’export del Made in Italy in Germania è calato del 2,5%. Secondo un’indagine della Camera di commercio italogermanica il 23% delle aziende che lavorano per l’economia tedesca prevede una situazione in peggioramento nei prossimi 12 mesi. Il settore più coinvolto è quello dell’automotive. Gli ultimi dati rilasciati dall’Istat lo scorso novembre mostrano una forte caduta delle vendite internazionali del mese di settembre pari al 6,6%, che va quasi ad azzerare la bilancia commerciale positiva nei primi nove mesi del 2023, lasciando una crescita ridotta a un +1% rispetto al +20% del 2022. Le vendite del mese si sono fermate a 51,5 miliardi di euro, 3,5 in meno rispetto allo stesso mese dell’anno precedente: in termini percentuali si tratta della maggiore caduta da ottobre del 2020. E se depuriamo i numeri dall’effetto dell’inflazione, il +1% si trasforma addirittura in un –8,7%. L’export italiano ha sofferto quasi ovunque, in Europa: in Germania (–7,8%), in Francia (–5,4%) e così via. Per Berlino il bilancio dei nove mesi è in rosso, con minori acquisti di Made in Italy del 2,5%.
L’elenco dei comparti in calo, spesso a doppia cifra, è lungo: chimica, mezzi di trasporto, mobili, metalli, elettronica, gomma-plastica. Gli unici settori in attivo restano i macchinari (+5,4%) e le auto, in crescita del 20%. Il calo dell’export non riguarda sol tanto l’Italia. I dati Eurostat evidenziano una discesa estesa a tutta l’Europa: la Germania a settembre ha perso ben 15 miliardi di fatturato estero, un crollo di oltre il 10%. Calo analogo in termini percentuali anche in Francia, dove le vendite estere si riducono di 5 miliardi.
Se consideriamo i primi nove mesi del 2023 la Germania perde un punto, e tra i maggiori Paesi esportatori soltanto la Francia riesce a mantenere una crescita del 4%. In termini globali l’Unione Europea cede in termini di vendite il 9,7% rispetto ai mercati extra UE, discesa che va quasi ad azzerare il bilancio dei primi nove mesi dell’anno, con ricavi che si fermano a 1901 miliardi (+0,7%). Energia, materie prime e chimica (in gran parte per l’effetto listini) sono i maggiori responsabili del calo mentre crescono, ma solo a valore, le esportazioni extra UE di meccanica e prodotti alimentari. Decisiva, in termini geografici, la riduzione verso i due maggiori mercati extra UE di sbocco, cioè Stati Uniti e Cina, in frenata rispettivamente dell’1,3% e dell’1,9% nei primi nove mesi del 2023 (grafico 2).
Serve un cambio di rotta
Questo 2024 appena iniziato potrebbe dare migliori risultati: almeno questa era, alla fine del 2023, la corale opinione di tutti i più accreditati centri di analisi e previsione economica. Tuttavia, è indispensabile che si verifichino alcune condizioni positive a livello mondiale e diversi cambiamenti a livello nazionale. Uno fra tutti, fra questi ultimi, il miglioramento della situazione del credito per le imprese italiane.
Come sottolineato dall’ultima nota congiunturale del CSC, il costo del denaro lo scorso settembre 2023 era salito al 5,35% e i prestiti erano caduti del –6,7% annuo. Nel terzo trimestre la domanda ha continuato a ridursi per i tassi troppo alti e i criteri di offerta divenuti più rigidi: così sempre più imprese incontrano difficoltà operative e frenano gli investimenti. Gli investimenti devono riprendere la loro crescita, invertendo il trend degli ultimi mesi.
I dati qualitativi, nota il CSC, «segnalano una dinamica degli investimenti in peggioramento dopo il calo nel secondo trimestre: l’indagine Banca d’Italia nel terzo trimestre suggerisce una significativa frenata della spesa in beni di capitale (saldo a 11,6 da 20,4 nel secondo)». Le imprese non investono anche perché prevedono una domanda ancora debole. A ottobre 2023 si è registrato un nuovo calo della fiducia delle imprese di beni strumentali. Forte è la nostalgia per i salutari effetti di Industria 4.0. Anche la fiducia delle famiglie deve tornare a crescere. Secondo il CSC, nel terzo trimestre le vendite al dettaglio sono ancora scese (–1,3% in volume).
Quanto all’export, l’industria italiana dovrà difendere la propria competitività e sarà una dura battaglia. Tutto dipenderà dall’evoluzione dei mercati esteri e dalla cara, vecchia geopolitica (grafico 3).
a cura di Bruno Marchi
a cura di Redazione
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